Dal 15 giugno 2009 medici e infermieri che operano all’interno di Mammagialla sono senza contratto perché scaduto e non ancora rinnovato. La medicina penitenziaria è in una condizione simile, se non peggiore a quella di Civita di Bagnoregio. Importanti pezzi di essa si sono staccati e l’intero sistema rischia di franare addosso a detenuti, polizia penitenziaria, magistratura.
La Asl di Viterbo, che ha preso in carico il servizio da ottobre 2008 è oggi ancora priva di disposizioni regionali in merito al riordino del servizio sanitario operante a Mammagialla e, evidentemente, non sa come comportarsi anche perché probabilmente non conosce il problema avendo ereditato una situazione sanitaria oggettivamente difficile e dovendo comunque garantire un livello assistenziale adeguato con risorse diametralmente inadeguate. Lo stanziamento di 500.000,00 euro disposto dalla Regione Lazio, insufficiente per far fronte ad una domanda di salute impegnativa, è ormai esaurito e non si ha ancora notizia alcuna di un nuovo stanziamento; il personale – quello rimasto – è sempre più demotivato e i segnali che arrivano dalla Regione – sostituzione con altro personale per niente preparato al lavorare in carcere spaventato dai detenuti e dall’ambiente – aggravano il burn out, già forte per il dovere fronteggiare con poche risorse gravi patologie di quasi settecento detenuti. Si dirà che non vi sono fondi per assistere i viterbesi e che dei detenuti poco importa.
Bene, ricordiamoci però che la magistratura di sorveglianza ha tra i propri doveri anche quello di vigilare che il carcere non si trasformi in un luogo di degrado e di umiliazione per le persone che vi soggiornano e che determinate patologie se non curate adeguatamente presenteranno prima o poi “il conto” alla società esterna in termini di diffusione di malattie infettive o, meno drammaticamente, sotto forma di pensioni di invalidità o assegni di accompagnamento che saremo costretti a pagare tutti quanti. Il personale infermieristico e medico del carcere di Viterbo non chiede la luna! Desidera da parte della Regione Lazio e della ASL di Viterbo certezze sul loro futuro lavorativo e non vuole che si proceda ancora come con alcuni specialisti che, dopo anni d’esperienza in ambito sanitario penitenziario, sono stati messi di fronte all’alternativa di andarsene o di accettare riduzioni del 50% del proprio onorario per le prestazioni erogate.
Oggi i medici e gli infermieri del carcere di Mammagialla, dopo anni (qualcuno addirittura più di 20) di servizio rischiano di non vedere riconosciuta la propria professionalità, basti pensare che la Regione Lazio, ma anche la ASL di Viterbo, più volte sollecitata dalla Simspe Onlus ad aprire un tavolo tecnico con chi di sanità penitenziaria ne sa abbastanza da essere riconosciuto a livello nazionale e internazionale come esperto in questo campo, non ha mai convocato esperti Simspe Onlus al tavolo tecnico. A livello regionale esiste un osservatorio per la sanità penitenziaria – mai riunitosi!- composto per la maggior parte da personale che non ha mai lavorato come medico penitenziario sul campo, che non ha mai trascorso una notte o un festivo dentro le mura di un carcere e che, di conseguenza, non può conoscerne i problemi reali. Il presidente Marrazzo, impegnato con il piano di rientro, presta poca attenzione a queste denunce che una volta, quando conduceva la popolare trasmissione televisiva “Mi manda RAI 3” erano oggetto di sue scrupolose indagine giornalistiche.
Basterebbe ascoltare un pochino quello che il coordinatore sanitario del carcere di Viterbo
scrive e più volte sollecita nelle sue lettere indirizzate alla ASL e alla Regione, ovvero la necessità di prevedere almeno la presenza di un infermiere per padiglione (ogni padiglione conta da un minimo di 60 ad un massimo di 300 detenuti) e di due medici per l’istituto dalle ore 07.00 alle 24.00 e un medico e un infermiere dalle 24.00 alle 07.00. Le incombenze sanitarie dentro il carcere sono infatti numerosissime, si parte da quelle meramente cliniche che riguardano soprattutto il 30% di tossicodipendenti, i molti malati di aids, i moltissimi detenuti affetti da patologie psichiatriche a quelle meramente amministrative come i vari nulla osta richiesti dall’autorità giudiziaria, i controlli clinici disposti dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, le autorizzazioni sanitarie rilasciate ai detenuti per recarsi in causa, le numerosissime relazioni cliniche richieste dai vari magistrati. Il medico e l’infermiere penitenziario durante la giornata tipo devono fare fronte ad almeno 50 interventi e distribuire almeno 600 terapie frazionate nell’arco delle 24 ore. Quando poi capita un’urgenza grave il sistema entra in crisi e si paralizza!!!
E’ verosimile che non incrementando le forze sul campo ma anzi deprimendole ulteriormente si vada verso un eccessivo ricorso all’invio a “Belcolle” congestionando il già congestionatissimo pronto soccorso con costi aggiuntivi di custodia e potenziali rischi per la popolazione (il reparto di medicina protetta – malattie infettive dedicato ai detenuti a Belcolle infatti è sempre occupato al 100% delle potenzialità disponibili e non può dare di più anche perché serve un’area geografica che interessa tutto il Lazio).
Facendo transitare la sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia a quello della Salute si voleva mettere sullo stesso piano il cittadino libero a quello ristretto… bene in linea di principio, male malissimo nell’applicazione! I signori politici non hanno voluto ascoltare i tecnici e hanno prodotto un sistema che è arrivato a preoccupare anche il comitato per la prevenzione della tortura di Bruxelles che, dopo una visita nelle carceri italiane a fine 2008, ha chiesto chiarimenti al nostro Governo sulle grave situazione sanitaria in molte carceri italiane.
In sintesi alla Regione Lazio e alla ASL di Viterbo un “ponte” per non diventare come “Civita-la città che muore”, “la medicina penitenziaria – l’assistenza sanitaria che muore”. Sarebbe un atto di responsabilità e di razionalità convocare in Regione e in ASL gli esperti del settore, quali gli appartenenti a Simspe Onlus, per cercare con loro di individuare i percorsi necessari ad arginare il crollo imminente.
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