Il “Terzo Mondo” italiano dove la salute non è un diritto rispettato.
Malattie mentali, aids, tbc e suicidi, questi i mali storici. L’epatite C
è la nuova emergenza: colpisce un detenuto su tre, un virus che esce dal
carcere insieme al detenuto. Per la salute pubblica, un pericolo in più.
La denuncia del carcere malato arriva dai medici penitenziari della
S.I.M.S.Pe. Un’indagine GfK-Eurisko fotografa l’emergenza Epatite C in 25
istituti di pena italiani.
Il carcere è la nostra Africa. È il nostro “terzo mondo”. E non solo
perché è forte la presenza degli extracomunitari. È la terra dove alcuni
diritti fondamentali sono solo astratti principi. Primo fra tutti il
diritto alla salute. Malattie mentali, Aids, Tbc, suicidi,
tossicodipendenza: i “mali storici”. Adesso esplode l’Epatite virale C. Un
dato è allarmante: colpisce un detenuto su tre. La malattia non si fa
fermare dalle sbarre ma esce con il detenuto scarcerato o in licenza
premio. E diventa un ignorato problema di salute pubblica. In un carcere
che l’indulto ha soltanto provvisoriamente alleviato e che già vede i
primi segnali di un ritorno “all’ acqua alla gola” , la salute è la prima
delle emergenze.
L’allarme viene dai medici che tutti i giorni lavorano nella terra dei
diritti disattesi: i medici di medicina penitenziaria della Società
Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria che, per rompere il silenzio,
su questa drammatica realtà e per confrontare con le Istituzioni possibili
soluzioni si riuniscono in un Congresso a Roma dal 4 al 6 ottobre.
Congresso anticipato in una conferenza stampa dove è stata presentata
un’indagine, proprio sull’emergenza Epatite C in carcere, condotta da
GfK-Eurisko in 25 Istituti penitenziari in tutta Italia.
“I detenuti aumentano e, con loro, le malattie. L’unica cosa che proprio
non cresce, anzi viene drasticamente ridotta, è il finanziamento. Dobbiamo
dire grazie ad alcune Regioni che si sono fatte carico negli ultimi
quattro – cinque anni della spesa farmaceutica e, in parte, di quella
specialistica e ospedaliera. Peccato che, a fronte di Regioni “virtuose”,
ce ne sono alcune che il grido d’allarme che viene da dietro le sbarre
proprio non lo vogliono sentire”. È forte la denuncia di Giulio Starnini,
Direttore del Reparto di Medicina Protetta-Malattie Infettive
dell’Ospedale Belcolle di Viterbo.
Le cifre dell’emergenza sanitaria nelle carceri italiane
Il 62 per cento dei detenuti ha una patologia che necessita di un
intervento medico. Il 43,5 per cento di questi ha problemi
psicologico-psichiatrici e il 28,3 per cento ha una malattia virale
cronica. Tra le malattie virali croniche l’Epatite C è al primo posto:
coinvolge circa un quarto dei detenuti di quelli presenti negli Istituti
penitenziari analizzati dall’indagine.
L’Epatite C dilaga ma non sempre i detenuti ricevono le cure adeguate:
infatti, solo la metà dei detenuti viene messo subito in terapia e, fra
questi, un quarto dei pazienti non accetta la terapia. Un terzo dei
pazienti in trattamento sospende la cura prima del previsto. Questo
significa che su cento detenuti con Epatite C sono 74 quelli che non
seguono alcuna terapia o la interrompono prima.
Eppure, nonostante il detenuto sia un paziente “difficile”, la metà dei
medici coinvolti dall’indagine GfK-Eurisko affermano che i risultati della
terapia dell’Epatite C ottenuti in carcere sono migliori di quelli
ottenuti in comunità grazie al fatto che c’è la possibilità di seguire
meglio il paziente/detenuto. Il carcere, quindi, è “un’occasione” mancata
di terapia.
Ecco perché dilaga l’Epatite C in carcere
“L’Epatite C (HCV) è la malattia infettiva più diffusa nel carcere – dice
Roberto Monarca, Presidente dell’VIII Congresso Nazionale della Società
Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (S.I.M.S.Pe) e Dirigente
Medico I° livello – Centro di riferimento AIDS – Ospedale “Belcolle” di
Viterbo -. Colpisce oltre il 38 per cento della popolazione detenuta, in
pratica più di un detenuto su tre è contagiato dal virus. Nelle donne la
prevalenza si attesta sul 30 per cento. La prevalenza più alta si registra
nei detenuti tra i 35-40 anni e questo è, per quanto riguarda la terapia,
un elemento favorevole perché un malato più giovane e con minore durata di
malattia si cura meglio.
Fuori dal carcere l’età di maggiore prevalenza di Epatite C è fra i 55 e i
60 anni. L’Epatite C è una malattia ad altissimo rischio nel carcere
perché nel luogo di detenzione ci sono condizioni che ne favoriscono la
diffusione. In primo luogo la concentrazione di tanti soggetti a rischio,
in modo particolare tossicodipendenti, il sovraffollamento, tanti detenuti
chiusi in un’unica cella; e poi l’uso in comune di oggetti taglienti come
rasoi, tagliaunghie e di spazzolini da denti. C’è anche il rischio di
trasmissione, pur se in minor misura, con rapporti omosessuali. Un
problema a sé è quello dei tatuaggi.
In carcere farsi un tatuaggio è una specie di rito. Molti detenuti,
soprattutto quelli che sono in carcere per la microcriminalità ma anche
per la criminalità organizzata, utilizzano il tatuaggio come un segno di
riconoscimento. Non avendo a disposizione aghi idonei al tatuaggio, i
detenuti usano spesso metodi primitivi come aghi “rimediati”, addirittura
iniettandosi l’inchiostro delle penne a sfera. “Strumenti” primitivi che
vengono passati di mano in mano diventando, quindi, fonte di trasmissione
del virus. Il detenuto ha tutte le caratteristiche di un “paziente
difficile”. Non mancano, purtroppo, persone refrattarie a qualsiasi
autorità, con un problematico rapporto medico-paziente.
Ci sono poi detenuti con problematiche psichiatriche e di dipendenza. Non
bisogna dimenticare che ci sono detenuti, il discorso vale in modo
particolare per l’Aids ma in larga parte anche per l’Epatite C, che
rifiutano le cure perché vogliono usufruire di una Legge che concede il
trasferimento in ospedale o la libertà a chi è malato in una forma grave.
Quindi, per un medico penitenziario la cura è particolarmente impegnativa.
La terapia oggi più utilizzata è la combinazione interferone peghilato e
ribavirina. Con questa terapia che è d’elezione, si ottengono percentuali
di guarigione che vanno dal 50 all’80 per cento. Quindi la cura c’è ed è
efficace. Se fosse possibile curare tutti i malati durante la loro
detenzione e garantire loro la continuità terapeutica nel circuito
penitenziario e dopo la scarcerazione, certamente l’Epatite C non sarebbe
più un’emergenza per la sanità penitenziaria e si ridurrebbe il rischio di
trasmissione alla popolazione fuori dal carcere”.
La ricetta per il carcere malato
“Nessuno ha la bacchetta magica – dice Giulio Starnini. Credo che il
carcere così come è oggi non sia la risposta idonea alla detenzione
sociale. La riforma dei codici penali e dei codici di procedura penale è
l’occasione per pensare ad una gradualità di misure sanzionatorie più
efficaci ed anche meno dispendiose del carcere. Certamente l’assenza di
politiche chiare e definite nel settore dell’assistenza sanitaria in
carcere e a volte anche di semplici indicazioni da parte del Palazzo non
ha giovato a nessuno. Per quanto ci compete comincerei, quindi, da qui, da
una seria riforma che orienti il passaggio al Sistema Sanitario Nazionale
e alle Regioni e che non sia subordinata a tristi criteri di carattere
finanziario ma piuttosto orientata ad investire su uno sviluppo
“sostenibile” che passi attraverso l’integrazione e l’ottimizzazione dei
Servizi esistenti.
Va valorizzato l’enorme patrimonio di organizzazioni non governative che
già operano negli istituti, razionalizzando i loro interventi,
integrandoli con quelli pubblici, evitando sovrapposizioni. Bisogna dare
all’attuale personale sanitario certezze e motivazioni: spesso è personale
precario, posto all’ultimo gradino nella scala delle professionalità,
costretto a rincorrere i propri diritti e quindi, alla lunga, desideroso
solo di trovare una nuova collocazione.
Occorre riconvertire i Centri Clinici esistenti all’interno degli Istituti
penitenziari di Day Hospital e Day Surgery evitando così di ingolfare
ambulatori e servizi esterni già sovraccarichi. In questi ultimi anni sono
stati aperti tre reparti per detenuti presso Ospedali pubblici (Milano –
Azienda Ospedaliera San Paolo, Roma – Presidio Ospedaliero “Pertini” e
Viterbo- Presidio Ospedaliero “Belcolle”) che si aggiungono a quello del ”
Civico” di Palermo.
Il principio ispiratore è stato l’esatto opposto di quello che aveva
orientato la realizzazione dei Centri Clinici e cioè “attenzione agli
aspetti della sicurezza in ambito sanitario ” piuttosto che ” attenzione
agli aspetti sanitari in ambito di sicurezza”. La ricetta è semplice
eppure, me ne rendo conto, estremamente complessa. La volontà politica c’è
ma i ritardi aumentano.
La medicina penitenziaria è pronta per fare la sua parte. Pronta ad essere
accolta nel Servizio Sanitario Nazionale e a collaborare con il Ministero
della Giustizia. Non vogliamo però continuare ad essere, per i nostri
stessi pazienti, la cenerentola dei servizi né il paravento per le
inefficienze di altri. Nel nostro Congresso lo chiederemo ai Ministri
pronti a metterci a disposizione con progetti chiari. La nostra esperienza
di medici del carcere è vastissima. Vorremmo che venisse utilizzata come
merita”.
Medico penitenziario: una figura da rivisitare
“L’attuale incertezza normativa – dice Andrea Franceschini, presidente
della S.I.M.S.Pe. e Direttore Sanitario C.C. Regina Coeli a Roma – rende
necessaria ed urgente la rivisitazione della figura del Medico
Penitenziario nel suo complesso. Diventa oramai necessaria la
ridefinizione di tale ruolo con autonomia organizzativa e progressione di
carriera ed economica; in quanto sono, di fatto e nell’attività svolta,
Dirigenti Medici a tutti gli effetti e già impegnati a più livelli
all’interno dell’Amministrazione Penitenziaria.
Considerare come una risorsa quegli Operatori sanitari che si sono
distinti per impegno e professionalità è un elemento indispensabile per
favorire la buona riuscita della configurazione di un nuovo assetto nell’
attività assistenziale in carcere. Il Documento di indirizzo della SIMSPe
2007-2008 è chiaro e si pone numerosi obiettivi fra i quali si ritiene
indispensabile la riattivazione dello staff sanitario presso la Direzione
Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria, al fine di supportare la stessa
Amministrazione con un indispensabile strumento tecnico in campo
sanitario.
E passiamo alle Regioni. Le Unità Operativa di Sanità Penitenziaria hanno
raggiunto una buona efficienza operativa e sono state riconosciute valide
innovazioni amministrative anche dalla Corte dei Conti. È necessario però
definirne con decreto interministeriale loro attribuzioni e relative
funzioni. Le “Unità Operative di Sanità Penitenziaria” rappresentano, di
fatto, il luogo ideale di incontro con gli Assessorati alla Sanità per
disegnare le nuove realtà assistenziali locali”.