…Un tempo, molti anni fa esistevano i “medici delle carceri”, professionisti, in genere giovani, che si adeguavano (per fare esperienza e guadagnare qualche lira) a lavorare nel più “infimo” dei luoghi. Questo lavoro quasi mai si sceglieva, in genere ci si arrivava per caso.
…Quanti ne ho visti passare. Tanti, forse troppi, e pochi tra di essi realmente motivati, con la giusta predisposizione umana e professionale e la giusta sensibilità per “mettersi a disposizione”, “prendersi cura” degli “ultimi degli ultimi”; di quelli che una società eccessivamente moralista, ma pur sempre migliore di quella attuale che non si indigna davanti a nulla e plaude al delinquente che si arricchisce, bollava e tagliava drasticamente fuori. Era una società con dei limiti, magari provinciale ed un po’ bigotta, ma che sapeva tutelare la sua parte più sana, onesta, per bene; quell’ insieme di persone di ogni ceto, che sapevano portare avanti e fare crescere un paese con sacrifici e sudore e che conoscevano e rispettavano ancora valori come onestà, onore ed educazione.
In questa società un gruppo di medici cominciava a rendersi conto che occuparsi della salute dei detenuti aveva valore e senso
1)perchè serviva ad un paese che aspirava ad essere pienamente civile per affermare la sua innata “humanitas”, la sua capacità di applicare la carta dei diritti dell’uomo anche con chi l’aveva ferita, oltraggiata e sfidata, violandone le leggi;
2)perchè consentiva di declinare in modo unico, irripetibile, originale e peculiare il giuramento di Ippocrate.
Eravamo dispersi in molte regioni di Italia, ma pian pianino cominciammo a riconoscerci e ci rendemmo conto che era necessario incontrarci, confrontarci. Varie furono le strade che percorremmo ed ognuno di noi le percorse tutte, dando il suo contributo e ricevendo molto . Alcuni di questi padri della Medicina Penitenziaria, con il proprio esempio e con le proprie intuizioni portarono alla nascita della SIMSPe, convinti che il momento scientifico, la ricerca e le applicazioni sul campo di tale lavoro, lo avrebbero migliorato rendendoci positivamente e virtuosamente visibili agli occhi di chi, a vario titolo e con ruoli diversificati, interagisce e collabora con noi.
E’ anche grazie a questa società (non disdegnando o sminuendo il contributo di tutti quegli amici che, con altre sigle, si sono battuti con analoghe finalità) che oggi ci troviamo in un nuovo momento storico, cruciale della nostra professione.
E’ opportuno però fare un passo indietro: circa sei anni fa il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (anche grazie al tenace paziente lavoro svolto da tutti noi nel trentennio precedente) si rese conto di quanto importante fosse il nostro lavoro. Nei provveditorati regionali (a differenza di quanto non si fece mai a livello centrale) si propose l’istituzione delle U.O.S.P., quale strumento, di coordinazione, supervisione e formazione dei medici penitenziari.
Possiamo affermare che in questi ultimi anni abbiamo prodotto cultura sanitaria in quantità e qualità elevate ed abbiamo offerto strumenti di lavoro e stimoli, pari a quelli di qualsiasi altra branca specialistica attiva sul territorio…
…quello che per anni era stato un drappello di medici volenterosi è diventato un gruppo omogeneo di professionisti consapevoli ed orgogliosi della propria identità professionale, contrariamente ad altri che di tale compito (ahi loro!) si vergognavano o non ne avevano cura.
Ci troviamo oggi a traghettare queste identità e professionalità da un ministero all’altro, in un momento che è giusto culturalmente, in quanto tutti noi, persino la maggior parte dei colleghi reclutati da poco (in quanto bene indirizzati ed istruiti dai propri dirigenti sanitari) sono consapevoli del valore specifico e dell’indispensabilità del proprio bagaglio di competenze. Un patrimonio che spesso ho esaltato nella complessità di esperienze anche esterne che lo costituiscono… quanto volte ho fatto notare come la qualità del nostro intervento fosse dovuto alle attività che svolgiamo all’esterno! Quante volte ho dato risalto alla molteplicità di competenze professionali che ognuno di noi porta in carcere e mette a disposizione degli utenti!
Ciò è vero, ma c’è anche un’altra faccia della medaglia che dobbiamo finalmente scoprire e mettere in risalto, perchè è da essa che scaturiscono delle riflessioni su quello che è auspicabile sia il futuro prossimo della nostra branca: se non abbiamo mai abbandonato questo ambito di intervento, spesso estremamente sacrificato e talvolta anche antieconomico è perchè esso ci ha pervaso nella nostra identità professionale!
Se è vero che in carcere abbiamo portato un bagaglio di esperienze acquisite all’esterno, quanto delle nostre esperienze abbiamo portato fuori e quanto questo ha influito sull’affetto e sull’apprezzamento che colleghi, ma soprattutto pazienti, hanno espresso nei nostri confronti?
Quanto l’unica, peculiare, irripetibile esperienza a contatto con i problemi e le espressioni di sofferenza più intensa e profonda, con il degrado, la disperazione, lo smarrimento e … la perdita di libertà (!) abbiamo portato come esperienza umana e professionale all’esterno e non solo con il “tossico”, il “matto” o il “delinquente”, ma con la persona cosiddetta comune, con l’adolescente ed il giovane in crisi o con il genitore disperato, riuscendo a discriminare patologie e stati di disagio (comunque di nostra pertinenza!) che
ad altri colleghi, magari molto più bravi in altri campi, sarebbero sfuggiti?!
E’ questa la meravigliosa pervasività della nostra esperienza, quel “quid” in più che la rende unica, irripetibile, insostituibile ed indispensabile e che rende noi patrimonio per la sanità pubblica.
E’ partendo da questa identità che si può pensare al futuro ed alle “nuove vie” da percorrere per consentire una crescita dei nostri “standards operativi” nelle strutture penitenziarie.
E’ partendo da essa che si può seriamente parlare di “clinical risk management” nelle nostre strutture.
E’ partendo da essa che si può e si deve enfatizzare il ruolo collaterale trattamentale del nostro agire. La nostra azione non deve limitarsi ad una meccanica ed acritica azione di cura dei detenuti, ma deve essere indirettamente “osservazione” e “trattamento”. Anche noi dobbiamo contribuire, con i rilievi e le osservazioni da mettere a disposizione degli altri operatori, con la nostra efficace capacità di interazione con i detenuti per favorire la riabilitazione del maggior numero (per quanto esiguo!) di persone detenute.
Non possiamo e non dobbiamo perdere la nostra collocazione all’interno di un’équipe multidisciplinare penitenziaria e la nostra (perlomeno funzionalmente per il direttore) deve restare un’Area operativa interna.
Se ci illuderemo di agire (come spesso hano fatto i SERT e le UOC) come “corpi estranei” o unità distinte, se ci illuderemo di potere fissare solo “outcomes” tecnici, limitati al nostro agire e non continueremo a condividere anche la progettualità con le altre aree e ad avere con queste dei progetti e outcomes comuni, allora falliremo miseramente e si tornerà indietro di trent’anni.
Questo non è nell’interesse di nessuno e noi di certo non lo vogliamo, così come non accettiamo (e continueremo a batterci in tale senso) di essere trattati come medici di serie B o figure facilmente sostituibili.
Sciagurato chi dovesse provarci, se ne assumerà la responsabilità sia moralmente che legalmente.
Noi, con umiltà, ma anche con determinazione, continueremo ad impegnarci…
Angelo Cospito
Segretario nazionale SIMSPE per il nord