Andrea Franceschini, direttore sanitario di Regina Coeli (e presidente di Simspe) commenta l’entrata in vigore del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sul trasferimento al Ssn delle funzioni sanitarie dei medici penitenziari
ROMA – “Finalmente una riforma che era stato avviata dieci anni fa con la legge 419 è giunta in porto. Per realizzare un passaggio corretto ed efficace di tutta la sanità penitenziaria al ministero della Salute, è ora necessario rimettere a punto tutti i moduli di intervento e ripensare il livello delle risorse visto che le percentuali delle patologie in carcere sono molto più alte delle medie nazionali normali”. Così Andrea Franceschini, direttore sanitario dell’Istituto Penitenziario Regina Coeli e presidente di Simspe, la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria Onlus, ha commentato alla nostra agenzia l’entrata in vigore del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri “concernente le modalità e i criteri per il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di Sanità penitenziaria”.
Dall’avvio della difficile riforma nel 1998-99, erano passate al Servizio Sanitario Nazionale le sole materie relative alle tossicodipendenze e alla medicina preventiva. Ora il percorso è completato e tutta la medicina penitenziaria è stata trasferita alla Salute, rispettando il dettato costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini rispetto ai diritti fondamentali come quello alla salute. Si tratta comunque di una materia molto delicata che coinvolge in Italia circa 2.000 operatori dedicati, tra medici ed infermieri, rispetto ad una popolazione detenuta che ha superato abbondantemente le 50.000 presenze. “Lavorare in carcere – spiega il dottor Franceschini – richiede un impegno straordinario, maggiori conoscenze e competenze. Fornire un farmaco, effettuare una diagnosi, disporre un ricovero, esprimere una valutazione clinica possono influire in maniera significativa non solo sulla salute ma sull’intera storia processuale di una persona detenuta. Occorrono fortissimo senso di responsabilità e passione”. Franceschini spiega che le patologie in carcere hanno una dinamica e uno sviluppo diversi. Negli istituti penitenziari, per esempio, abbiamo oggi una percentuale di tossicodipendenti che si aggira sul 40%, valore molto più alto della media che si riscontra nella società. I malati di Aids rappresentano il 13% della popolazione detenuta complessiva. Tra i detenuti si registra anche un 38% di malati di epatiti di diverso tipo. Le problematiche che devono essere affrontate dai medici penitenziari sono molto complicate dunque e i modelli operativi dovranno ora – alla luce della riforma – essere rivisitati. Per far questo, suggerisce ancora il dottor Franceschini, è necessario coinvolgere pienamente i medici penitenziari che finora sono rimasti un po’ ai margini di tutto il processo. Basti pensare – ricorda per esempio Franceschini – che non ci sono stati rappresentanti dei medici penitenziari nelle commissioni istituite per l’applicazione della riforma.
In particolare il decreto appena varato prevede la realizzazione di un Tavolo dedicato presso la Conferenza Stato-Regioni per il coordinamento e l’armonizzazione delle linee guida generali con i servizi sanitari realizzati da ciascuna Regione. “Il nostro invito ai Ministri Sacconi ed Alfano, ai Sottosegretari Martini e Fazio, al Presidente della Conferenza Stato-Regioni – conclude Franceschini – è quello di non disperdete il patrimonio prezioso che Simspe e i medici penitenziari rappresentano”.