Ad un anno esatto dall’entrata in vigore della riforma che avrebbe dovuto attuare il riordino previsto dal Dlgs 230/1999, la Sanità penitenziaria naviga a vista. Stritolata tra l’emergenza del sovraffollamento – sono 63.217 i detenuti al 9 giugno, contro una capienza regolamentare di 43.177 – e gli inevitabili disguidi legati al transito delle competenze dal ministero della Giustizia al Welfare, dunque alle Regioni. Investita del compito improbo di curare persone che entrano ed escono dal carcere, spesso straniere (sono 21.400 gli extracomunitari dietro le sbarre) e spesso alle prese con problemi di droga (i tossicodipendenti sono 15mila). Tormentata dalle difficoltà di inquadramento del personale di ruolo e soprattutto di quello in convenzione, la vera ossatura del sistema sanitario in carcere, i cui contratti scadono il 14 giugno. Stressata dalla fatica di intercettare e trattare malattie infettive gravi, dall’Hiv alle epatiti.
Intanto, in carcere, ci si ammala e si muore. Francesco Ceraudo, presidente Amapi, ricorda che nei primi quattro mesi del 2009 ci sono stati 22 suicidi, indicatori di una «situazione esplosiva, al limite dei diritti umani». Giulio Starnini, direttore dell’Uo dell’ospedale di Belcolle e dirigente della Simspe guidata da Andrea Franceschini (dal 2010 acclamato presidente onorario), è convinto che «i detenuti sono una popolazio-ne svantaggiata: non si possono affidare all’estemporaneità del medico di famiglia, del medico di guardia o dello specialista ».
di Manuela Perrone