19 novembre 2013 – E’ il caso della detenzione per pena: soprattutto nel primo periodo, quando il carcerato non è ancora abituato alla condizione di recluso, si manifestano sintomi di deterioramento psichico, come insonnia, nevrastenia, ipersensibilità, autolesionismo, anticamera di forme depressive più gravi. Il detenuto vive una quotidiana deprivazione della libertà, che si concretizza come una vera e propria menomazione fisica: non essendo più libero di svolgere semplici azioni giornaliere senza dover chiedere un permesso (anche per scrivere una lettera, lavare un capo di abbigliamento, tagliarsi i capelli…), il carcerato avverte la stessa frustrazione di un disabile motorio privato dell’uso degli arti. La mancanza di autonomia conduce ad una perdita della propria identità , anche sessuale, in cui il detenuto avverte se stesso come oggetto. La compensazione avviene con un’amplificato atteggiamento di remissività, o con un’ ingiustificata attitudine al comando e alla sopraffazione: opposti comportamenti che disegnano la gerarchia del sottobosco carcerario, caratterizzata da leader e gregari.
Non esistono malattie tipiche della condizione del detenuto, ma è pur vero che in carcere qualsiasi disturbo, anche un semplice raffreddore, assume la valenza di un espediente comunicativo. In un contesto di limitazione e isolamento, attraverso la malattia il carcerato parla di sé, si esprime. Di fatto, le difficili condizioni in cui versano le carceri di tutto il mondo favoriscono l’insorgenza di malattie. I problemi di igiene, alimentazione, spazio, possono provocare disturbi gastroenterici, insonnia (con elevata richiesta di sonniferi), malattie dermatologiche e meccaniche (mal di schiena, difficoltà di deambulazione, mal di piedi), malattie respiratorie, infezioni.
L’impossibilità di muoversi agevolmente e di praticare esercizio fisico può causare problemi di atrofia muscolare, ulteriormente complicati dall’insorgere di una esasperata sedentarietà: camminare, correre, alzarsi da una sedia o da letto, diventano azioni prive di significato.
Il tempo del carcere è lento e monotono, lo spazio è angusto e sbarrato. Il tutto in assenza di stimoli affettivi, sensoriali ed intellettivi. Si rivoluziona il tempo fisiologico e si perde la ciclicità, con la comparsa di disturbi diversi come, nelle donne, le oligo-amenorree e polimenorree che sconvolgono il ciclo mestruale.
E in questo scenario desolante il detenuto spesso tende a non sottoporsi alle terapie prescritte dal medico penitenziario. “Si tratta di un rifiuto inconsapevole, generato da ansia e disperazione – spiega il dott. Giulio Starnini, specialista in Malattie Infettive, Direttore Unità Operativa Medicina Protetta – Malattie Infettive Ospedale Belcolle Viterbo e Past president e fondatore Società Italiana Sanità e Medicina Penitenziaria– e a volte consapevole, quando il detenuto si persuade che l’aggravamento della sua malattia, o addirittura la simulazione di una patologia, possano garantire il trasferimento o la libertà vigilata. La depressione può indurre ad esempio un malato di Aids ad astenersi dalla terapia farmacologica, abbassando seriamente le difese immunitarie. Sta al medico penitenziario saper interpretare un rifiuto della terapia, attraverso un approccio olistico: non si studia il mero sintomo della malattia, ma la persona nella sua totalità.”
Vivono una forzata solitudine anche i malati cronici, colpiti da patologie che presentano sintomi costanti nel tempo e che non prevedono miglioramento. Oltre alle malattie causate principalmente da ereditarietà ed invecchiamento, esistono molte malattie croniche, come le cardiopatie, l’ictus, il cancro, il diabete e molte malattie respiratorie, la cui insorgenza è provocata da fattori di rischio modificabili, come un’alimentazione scorretta, abuso di alcool e tabacco, mancanza di attività fisica, comportamenti che spesso si accentuano nelle persone che vivono in solitudine, prive di sostegno fisico e psicologico e di sollecitazioni alla prevenzione sanitaria e alla cura del proprio corpo.
Quando la malattia è invalidante, la solitudine diventa un incubo, ma anche un rifugio, per chi per primo non accetta la propria condizione e stenta ad integrarsi in un mondo di “normali”. Un sostegno può arrivare dalla associazioni di malati, che tendono a promuovere l’interazione fra degenti di una medesima patologia e la creazione di momenti di discussione e di scambio reciproco in cui il malato, verbalizzando pensieri e sentimenti negativi relativi alla propria malattia , e sfogando la propria frustrazione, possa imparare ad accettare la propria condizione e rendere così meno difficile un inserimento nel mondo esterno. Ma la solitudine del malato cronico nasce anche dalla carenza di un efficace sostegno da parte del sistema sanitario nazionale: “Quello che manca negli ospedali pubblici è un reale programma di supporto per il malato cronico, sia nel momento della diagnosi, che per tutto lo sviluppo della patologia, in particolare nelle fasi di ricaduta.”sostiene Tonino Aceti, coordinatore nazionale del CNAMC- Coordinamento Nazionale Associazioni Malati Cronici– I malati cronici vengono lasciati soli con il loro dramma, e lo stato depressivo in cui sovente cadono può inficiare la terapia ed influenzare negativamente il percorso della malattia.”
“Un problema fortemente sentito dai malati cronici anziani, colpiti ma patologie invalidanti come Parkinson, Alzheimer, diabete, e che non hanno possibilità di assoldare una badante: queste persone avrebbero bisogno di un’assistenza domiciliare più costante da parte del medico di famiglia e degli assistenti sociali, ma vengono penalizzati dai tagli alla sanità pubblica.” conclude Aceti.
Problemi di deambulazione impediscono ai malati cronici di sbrigare le pratiche e le certificazioni per il riconoscimento dell’invalidità per l’ottenimento di agevolazioni economiche e presidi sanitari domiciliari (letti snodabili, carrozzine, materassi antidecubito), e di trasferirsi nei luoghi di diagnosi e terapia. Una soluzione possono essere gli hospice, le strutture residenziali che forniscono le cure palliative per un periodo di tempo circoscritto, i centri diurni specifici per alcune malattie o disabilità, e il prezioso lavoro delle associazioni di volontariato, fondate da medici o da familiari di pazienti, che offrono assistenza gratuita ai malati cronici.
E sembra sia in costante aumento negli ospedali il fenomeno del cosiddetto “auto ricovero”, per cui un anziano solo si rivolge al pronto soccorso al primo aggravamento o al primo sintomo di malattia. Al momento della dimissione, la prospettiva di un rientro a casa, senza assistenza da parte dei parenti, in abitazioni che presentano grandi ostacoli come la mancanza di ascensore, induce il malato a compiere un penoso pellegrinaggio verso un altro presidio ospedaliero.
La solitudine è il pericolo che corre chi soffre di una delle tante malattie rare, che a causa della mancanza di informazione e conoscenza della patologia porta al progressivo isolamento. Alcune malattie rare sembrano condannare al silenzio e alla solitudine: come la sindrome di Cogan, difficile da diagnosticare, anche perché si manifesta con sintomi quali fotofobia, vertigini, perdita dell’udito, che potrebbero essere interpretati in modi differenti. L’incertezza circa la natura del proprio malessere spesso conduce il malato, dopo una sequenza di visite mediche ed esami insoddisfacenti, ad isolarsi nel suo dolore e rifiutare qualsiasi proposta di indagine. Esistono malattie rare cui si associa il fenomemo del farmaco “orfano”, che non si trova in commercio a causa dell’insufficienza di richiesta di mercato utile a ripagarne la produzione, a cui si combina la mancanza di esenzioni ed assistenza a livello pubblico e privato. In Italia, dove si contano circa due milioni di malati rari, solo negli ultimi anni sono stati individuati in ogni regione i presidi per l’assistenza per queste malattie, con l’attivazione di registri , osservatori, centri di coordinamento ed assistenza.
“Le caratteristiche proprie delle malattie rare (bassa frequenza nella popolazione, difficoltà diagnostica e conseguente peregrinazione fra diverse sanitarie, scarsità di terapie risolutive, cronicità) sollecitano vissuti di disagio e solitudine nelle persone colpite da tali patologie e nei loro familiari più che in altre malattie – dichiara la d.ssa Domenica Taruscio, Direttore Centro Nazionale Malattie Rare dell’Istituto Superiore di Sanità di Roma – Analogamente tra gli operatori sanitari e sociali che entrano in contatto con questo universo si riscontrano spesso impotenza e frustrazione. Tuttavia, anche nelle situazioni più complesse emergono risorse importanti, sia a livello individuale che di gruppo, tali da fronteggiare le difficoltà, stimolare il confronto, e sopratutto porsi come soggetti attivi sia nella relazione di cura che nella società.”
La solitudine produce malattia, la malattia porta all’isolamento.
Ma è anche nella solitudine che si può recuperare se stessi: “Restituire all’arpia le sembianze della ninfa” come afferma il dott. Pasquale Romeo, Responsabile Nazionale per la Disciplina Psichiatrica Gruppo di Ricerca dell’Università di Siena, che nel suo libro “Soli soli soli, come affrontare la solitudine” invita a non demonizzare questa condizione. “In una società che rifiuta la solitudine, dobbiamo imparare a godere di essa. Senza la solitudine non si può comprendere il senso del “carpe diem”, perché solo nella solitudine possiamo soffermarci attentamente sui nostri bisogni e scoprire le nostre reali vocazioni.”